di Giuseppe Cotti *
In questi anni abbiamo assistito a un dibattito politico sempre più malsano sulla scuola in Ticino. Una deriva che ha toccato il suo apice, con la discussione attorno al superamento dei livelli nella Scuola media – tutti presentano le loro ricette, dal Dipartimento ai partiti, in un confronto politico che progressivamente perde di vista la realtà.
I problemi del nostro sistema educativo esistono, ma devono essere affrontati dal basso, ascoltando chi ogni giorno vive nelle aule delle nostre scuole. È esattamente il contrario di quello che sta accadendo oggi nel nostro Cantone.
La tendenza all’omologazione che stiamo vivendo, non solo in ambito scolastico e non solo in Ticino, è preoccupante. Il Cantone punta all’uniformità totale, imponendo le stesse regole ovunque: dalla valle Onsernone al centro di Lugano. La stratificazione sociale, economica e culturale della popolazione di un Comune è considerata ininfluente per la struttura degli istituti scolastici. Questa impostazione è sbagliata, e aumenta sempre di più la distanza fra chi decide
sulla scuola e chi la scuola la fa.
Un altro esempio di dibattito mal posto è quello sull’abbassamento del numero di allievi per classe. Un dogma diffuso è quello per cui una scuola con sezioni composte da un massimo di 22 allievi avrebbe superato tutti i suoi problemi. La mia esperienza di municipale, e quella di chiunque conosca gli istituti scolastici comunali, dice ben altro. Abbiamo sezioni di 17 o 18 allievi che creano problemi, e altre più numerose che lavorano benissimo. Il criterio del numero massimo di allievi non è una formula magica. Molto meglio è puntare sul "principio del bisogno", con un sostegno su misura per ogni docente e per ogni bambino, indipendentemente dal numero di compagni che ci sono in classe. Quello che serve non sono parametri fissi, ma risposte adattabili e mirate.
La stessa rigidità ha influenzato il dibattito sulla figura del docente di appoggio, che è obbligatorio assumere a partire da un certo numero di allievi per classe. Un meccanismo rigidissimo che azzera l’autonomia delle direzioni e impedisce loro di lavorare con flessibilità, penalizzando in fin dei conti anche il lavoro degli stessi docenti. E poi: siamo sicuri che il docente di appoggio, che ha la stessa formazione del docente titolare, sia sempre la risposta migliore? Anche in questo caso, la realtà dice altro. Spesso il docente titolare ha bisogno di figure diverse, per affrontare problemi che sono ben al di fuori dalla sua sfera di competenza professionale. Servono educatori, operatori pedagogici per l’educazione, esperti di comunicazione e ogni tanto anche psicologi. Serve un vero approccio multidisciplinare.
Ho citato solo tre dei molti esempi di meccanismi mal costruiti dalla politica, che oggi inceppano il buon funzionamento della scuola. Una scuola che ha sì il forte bisogno di essere riformata, ma non partendo da risposte generalizzate e preconfezionate. Tutto indica che occorre restituire una certa autonomia agli istituti, sull’organizzazione delle loro scuole: è una misura che ci permetterebbe già nel medio termine, e senza aumentare la spesa pubblica, di migliorare sensibilmente la qualità dell’educazione. Gli eccessi amministrativi e la pigrizia mentale sono da mettere al bando, nella scuola e in ogni altra politica pubblica. Dare più spazio alla libertà – ne basta un pizzico! – ci aiuterà a trovare soluzioni adeguate per i problemi locali, nel rispetto della didattica cantonale. Ci serve solo la forza di scegliere l’autonomia, nella consapevolezza del fatto che l’uguaglianza assoluta non esiste, che è un’illusione volerla imporre.
* Vicesindaco di Locarno, candidato al Gran Consiglio per il Centro/PPD
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