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11.04.2013 - 16:040
Aggiornamento: 03.10.2018 - 16:25

Lotti: "Gli imprenditori non cedano a scorciatoie e salvaguardino l'occupazione locale"

Il presidente dell'AITI, nel suo intervento durante l'assemblea degli industriali, affronta diversi temi: dalla crisi, ai bilaterali e ai frontalieri. E sui contratti di lavoro ribadisce il no ai 3'000 franchi

LUGANO - Con l'assemblea generale di giovedì 11 aprile, l'Associazione industrie ticinesi (AITI) conclude i festeggiamenti del 50esimo anniversario dalla nascita dell'associazione di categoria. Diversi i temi d'attualità affrontati nella sua relazione dal presidente Daniele Lotti. Dalle difficoltà legate al franco forte, alla crisi congiunturale, ma anche alla necessità di rivedere la politica fiscale per le aziende e il ruolo dello Stato sono stati alcuni dei temi ripercorsi dal presidente. Vi proponiamo alcuni stralci del discorso di Daniele Lotti che riguardano un problema di estrema attualità in Ticino: il lavoro, la politica salariale, il ruolo e le responsabilità degli imprenditori nei confronti del frontalierato e degli accordi sulla libera circolazione. 

Contratti normali di lavoro: una soluzione sbagliata

"L’AIT ha inoltrato ricorso al Tribunale federale insieme ad un certo numero di aziende e a Swissmem contro la decisione del Consiglio di Stato di introdurre due contratti normali di lavoro in altrettanti rami industriali, quello delle apparecchiature elettriche e quello della fabbricazione di computer, prodotti di elettronica e ottica. Il Tribunale federale ha accolto la nostra richiesta di effetto sospensivo e pertanto i contratti normali di lavoro non sono entrati in vigore lo scorso 1. aprile".

"La nostra decisione di ricorrere al Tribunale federale ha raccolto sia consensi sia critiche. Siamo stati accusati di non volere pagare salari minimi di 3'000 franchi al mese e voler fare profitti sulle spalle dei lavoratori, assumendo manodopera a basso costo. Abbiamo già ripetuto in numerose occasioni le motivazioni che ci hanno portato a decidere di ricorrere contro l’introduzione di contratti normali di lavoro con minimi salariali. Lo scopo del nostro ricorso non è in realtà quello di evitare di pagare determinati salari, anche perché nel settore industriale solo una minoranza di circa il 15 % per cento di tutti i lavoratori percepisce un salario attorno ai 3'000 franchi mensili. E si tratta quasi esclusivamente di lavoratori frontalieri. Riteniamo infatti che la decisione del Governo ticinese abbia messo in discussione dei principi – il primo fra tutti il fatto che le condizioni salariali devono essere definite dalle parti sociali – sui quali fra l’altro non esiste sempre giurisprudenza"

"Più in generale riteniamo che sia estremamente pericoloso trasformare il cantone Ticino in un luogo dove i salari in fin dei conti verrebbero fissati dallo Stato. Pericoloso certamente agli occhi degli investitori che guardano al nostro Cantone come luogo potenzialmente ideale per collocarvi un’attività produttiva. Pericoloso però anche per le parti sociali, perché qualora in Ticino dovesse estendersi l’utilizzo dei contratti normali di lavoro, padronato e sindacati non avrebbero più ragione di dialogare almeno sugli aspetti salariali. E mi si lasci ricordare il fatto che questa decisione del Governo ticinese è stata immediatamente salutata perfino con giubilo dalla stampa italiana, la quale ha messo in risalto il fatto che il mercato del lavoro ticinese sarebbe diventato ancor più attrattivo per la manodopera frontaliera, all’affannosa ricerca di un posto di lavoro che in patria non si riesce più a trovare".

"E’ questo che vogliamo per il cantone Ticino o, piuttosto, le parti sociali devono riappropiarsi della loro capacità di trovare soluzioni concordate? La risposta è scontata da parte nostra e del resto, quando si è trattato di discutere i casi di dumping salariale emersi dalle inchieste effettuate sul mercato del lavoro, abbiamo indicato che la strada maestra era piuttosto quella del buon senso, utilizzato fino al recente passato, che poi significa chiamare rapidamente le imprese a riconoscere i propri torti, una volta accertati, e a sanare le situazioni inammissibili. Ci siamo detti disponibili a percorrere insieme alle autorità e ai sindacati questa strada, ma dal fronte delle autorità è purtroppo giunto un segnale differente, che si è tradotto nel saltare ogni tentativo di dialogo con le imprese colte in fallo, o presunto tale, per utilizzare unicamente lo strumento dei contratti normali di lavoro che, fra l’altro, hanno durata temporanea e non possono che imporre per legge unicamente il pagamento di un salario orario minimo, nessun’altra condizione".

"(...)Siamo consapevoli che anche la parte imprenditoriale è chiamata a fare il proprio dovere sino in fondo. Vogliamo tuttavia lanciare un segnale anche alle autorità cantonali, perché negli ultimi mesi ci siamo viepiù convinti che l’azione dello Stato sembra essere sempre più finalizzata alla spasmodica ricerca del dumping salariale. Certamente lo Stato è chiamato ad applicare le leggi, nel caso in questione la legislazione federale sulle misure d’accompagnamento all’accordo bilaterale sulla libera circolazione delle persone, ma non siamo d’accordo sul fatto che oggi e in futuro ogni situazione, ogni strumento di controllo, ogni atteggiamento di giudizio debba essere indirizzato prima di tutto a trovare gli elementi per dimostrare il dumping salariale. Non mi si fraintenda, perché l’AITI ha già dichiarato più volte che di fronte a casi dimostrati di dumping salariale o di non rispetto di altre condizioni dei contratti di lavoro, non difende né difenderà quelle imprese e quegli imprenditori che non sono in regola".

Il senso di responsabilità degli imprenditori

"Già in occasione dell’assemblea dello scorso anno avevamo avuto modo di evidenziare il vento ostile che si era alzato nei confronti delle imprese e della categoria dei lavoratori frontalieri. Non ci si deve mai dimenticare che il fine essenziale dell’attività economica è quello di generare profitti, come ho ricordato prima, perché solo realizzandoli l’impresa ha a disposizione i mezzi per investire, creare posti di lavoro e gettare le basi durature della propria attività. Non dobbiamo dunque affatto vergognarci di ripetere che l’impresa deve prima di tutto guadagnare. Il successo dell’impresa però in grande parte è dovuto alla lungimiranza e al coraggio dell’imprenditore e alle competenze professionali e umane delle collaboratrici e dei collaboratori dell’azienda".

"La storia e i numeri indicano chiaramente che, ancora oggi, i lavoratori frontalieri sono una componente stabile e indispensabile dell’industria cantonale, più o meno circa la metà dei lavoratori del settore industriale. Senza di loro determinate attività non potrebbero essere svolte e probabilmente alcune aziende che offrono beninteso anche molti posti di lavoro a manodopera residente probabilmente sarebbero altrove".

"In questi tempi di acuite tensioni sociali, purtroppo anche alimentate ad arte da frange della politica il cui obiettivo principale non sembra proprio essere quello di risolvere i problemi che nascono sul mercato del lavoro, il richiamo al senso di responsabilità degli imprenditori si fa ancora più forte. C’è qualcosa che va certamente oltre il rispetto delle leggi e dei contratti di lavoro. Non è semplice, credetemi, trovare il giusto equilibrio fra le esigenze dell’impresa, parte di un mercato globalizzato che non guarda in faccia a nessuno, e le aspettative di un tessuto sociale che cerca di trovare attraverso i posti di lavoro la realizzazione di una parte importante delle proprie aspirazioni personali. Dobbiamo seriamente preoccuparci del fenomeno della disoccupazione giovanile e della difficoltà dei nostri giovani di trovare un’occupazione che dia loro delle prospettive, ma non possiamo nemmeno pretendere che siano l’economia e le imprese a dover risolvere tutti i problemi della nostra società, ad iniziare dal disagio sociale che purtroppo avanza anche da noi".

"Noi non stiamo dalla parte di chi pensa che i problemi si risolvono alzando dei muri alle frontiere, anche se riconosciamo che occorre fare qualcosa di serio, concreto e immediato per rispondere agli innegabili disagi che si sono creati, particolarmente nella nostra regione di frontiera, accettando il principio della libera circolazione delle persone fra Svizzera e Unione europea".

"Il disagio sociale è oggi anche rancore sociale; un campanello d’allarme che va colto fino in fondo dalle autorità ma anche dagli imprenditori. Se allora la risposta non può stare nell’innalzamento delle barriere, pur coscienti, lo ribadisco, che determinate situazioni devono essere aggiustate – ad esempio l’invasione dei cosiddetti padroncini, o l’insufficiente reciprocità nell’accedere al mercato italiano da parte di tutta una categoria d’imprese –, dobbiamo agire in altri ambiti, fra i quali certamente anche quello della formazione, consolidando inevitabilmente il grado di preparazione dei nostri  giovani e dei collaboratori delle imprese di altre fasce d’età. Solo attraverso una solida formazione che si rinnova costantemente possiamo fare fronte all’arrivo di manodopera dall’estero sempre più specializzata, motivata e desiderosa di apprendere. Dobbiamo anche noi riappropriarci di questa fame di conoscere e apprendere che è stata ad esempio la caratteristica dei nostri antenati e genitori, costretti, volenti o nolenti, anche ad emigrare lontano per costruire un futuro per la propria famiglia".

"Gli imprenditori hanno indubbiamente il dovere di pretendere la maggiore comprensione possibile per le difficoltà con le quali operano e nelle quali fanno impresa e offrono posti di lavoro. Anche se è doloroso, quando è necessario l’azienda non può che mettere mano ai propri costi, riducendoli, quindi anche intervenendo sull’occupazione. Ma è giusto chiedere a nostra volta agli imprenditori, soprattutto nei difficili tempi odierni caratterizzati da una crisi finanziaria degli Stati e delle principali economie industrializzate, di resistere alla tentazione di facili vie di fuga salvaguardando nella misura massima possibile l’occupazione locale. E’ un discorso questo che riguarda forse maggiormente alcuni settori economici non industriali, ma ogni impresa ogni imprenditore sono membri a pieno titolo del tessuto sociale e assumono in questo contesto anche una responsabilità sociale verso la popolazione".

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