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Cronaca
25.06.2013 - 07:390
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:41

Un giorno in carcere, negli angoli di quotidiana umanità di chi vive dietro le sbarre

Il racconto di una guardia responsabile di un laboratorio al penitenziario della Stampa. "Quando indossavo la divisa c'era più diffidenza, ora invece c'é un rapporto quasi di amicizia con loro" ci dice

CADRO - Entrare in un carcere fa un certo effetto, soprattutto se è la prima volta per chi scrive. I cancelli d'acciaio, le porte bloccate che si aprono solo una alla volta, le telecamere perennemente puntate, i metaldetector, il filo spinato all'esterno, l'eco nei corridoi. Sono elementi che danno la concreta percezione dell'esistenza di un dentro e un fuori. Dentro la vita scandita dai rituali del carcere, fuori la vita senza sbarre se non quelle mentali. 

Sono alla Stampa per la conferenza stampa di presentazione del progetto targhe. Dopo le spiegazioni in un aula, ci spostiamo nel laboratorio nuovo. Ci lavorano due capi-arte. In carcere, come ci ricorda il direttore Fabrzio Comandini, il lavoro è obbligatorio. L'importanza di dare un senso alla propria esistenza attraverso un'attività è fondamentale anche per chi sta espiando una pena. Il lavoro ricorda ai detenuti quello che c'è fuori, gli orari, gli obbiettivi di produzione, il salario. In carcere si percepiscono circa venti franchi al giorno. Una parte viene utilizzata per le proprie esigenze, un'altra spesso viene trattenuta per risarcire le vittime dei reati. 

Torniamo al laboratorio. Ci viene mostrato quello delle targhe. I colleghi giornalisti fanno domande, si procede con le interviste e e foto. I detenuti non ci sono. In attesa di poter uscire m'intrattengo con un capo-arte, ovvero il responsabile del laboratorio, una sorta di capo officina. Vengo attratto dallo spazio dove vengono fatti lavori di artigianato con mosaici in vetro. In una scatola ci sono gli scarti che sono affilati come coltelli. Il primo pensiero in un carcere, forse condizionato dal cinema, va ai detenuti che nell'immaginario collettivo sono tutti brutti e cattivi e che sanno usare solo violenza. È un pensiero istintivo, ingenuo, come ingenua è la domanda che faccio al capo-arte. 

"Non è pericoloso lasciare li quei pezzi di vetro?" chiedo. L'uomo mi risponde che lo scorso mese sono capitate in alcuni momenti delle situazioni di tensione, ma sono come quelle che si possono avere in qualsiasi posto di lavoro. "Sono dei pezzi di pane" ci dice. Già ma anche fuori si può arrivare alle mani. Come si fa in carcere, cosa succede, non ci sono le guardie? "Io sono una guardia" chiarisce il capo-arte che indossa un camice da lavoro blu, jeans e una camicia. "Sono dieci anni che sono capo-arte nei laboratori. Ho fatto una formazione specifica a Friborgo. Quindi so anche come gestire certe situazioni. Inoltre ci sono le telecamere e tutto è costantemente sotto controllo. In caso di bisogno sono pronti ad intervenire anche i colleghi in divisa". 

Già la divisa, ovvero quella cosa in grado di creare tensione. "Quando ero una guardia in divisa notavo l'atteggiamento teso, nervoso del detenuto di fronte alla divisa. Ora che indosso abiti normali, il rapporto con loro è nettamente diverso. Si instaura un rapporto quasi d'amicizia. I detenuti quando vengono nei laboratori sono più distesi, con noi arrivano anche a confidarsi parlando dei loro problemi" mi racconta l'uomo. 

Sono persone normali che hanno sbagliato e stanno pagando con la privazione della libertà i loro errori. Molti riescono a lasciarselo alle spalle il carcere, altri ci ritornano. "Ma nessuno si porta dentro i suoi errori" mi dice il capo-arte. Poi per spiegare meglio il concetto e, quasi a smentire i concetti lombrosiani sul crimine, mi mostra le foto dei detenuti, una decina, che operano in quel laboratorio. Il cronista che si occupa anche di giudiziaria, alcuni volti li riconosce. L'uomo ci chiede: "Ora guarda e dimmi chi secondo te è il più cattivo". Guardo le foto segnaletiche. Per istinto indico quello che mi sembra corrispondere di più a presunte caratteristiche cirminali. "No, lui è un pezzo di pane, gentilissimo. È lui quello che sulla carta è più terribile (e indica una foto). Ma anche lui è un pezzo di pane. Capito?". Capito. 

 

ItaCa

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