Per i genitori della bimba, oltre al dolore della perdita, la constatazione che alcuni intoppi, come una comunicazione poco delicata fatta davanti alla figlia, si potevano evitare. Così anche per Peduzzi, che spiega come si agisce di solito in questi casi
BELLINZONA – Casi come quello di Alice, la bambina morta lo scorso maggio a causa di due tumori al cervello, stringono il cuore. Soprattutto quando, oltre al dolore per la malattia e la perdita, entrano in gioco fattori come una diagnosi inizialmente sbagliata e la comunicazione della corretta, tumore al cervello, fatta ai genitori di fronte alla bambina. Errore, il secondo, che si sarebbe potuto evitare e per questo i genitori hanno deciso di rendere pubblica la storia della loro piccola Alice.
Il dottor Pierluigi Brazzola, caposervizio in pediatria oncologica all’ospedale San Giovanni, intervistato da LaRegione a riguardo, ha già chiarito che di regola la prassi non è certamente quella di comunicare la diagnosi di fronte al bambino, “ma a volte tutto precipita, c’è l’urgenza di portare il paziente a Zurigo, non si ha il tempo materiale di pianificare una buona comunicazione. E può scappare, anche involontariamente, una parola di troppo davanti al piccolo paziente. Come è successo ad Alice”.
Una diagnosi, o sospetta tale, di cancro non è mai cosa facile, né da comunicare né da ricevere. Come si agisce quindi in questi casi? E come dare notizie simili quando si tratta di bambini? Soprattutto poi nei casi di urgenza dove è più facile “sbagliare”, incappare nella parola di troppo, come dimostra anche il caso di Alice. Sono le domande che questa drammatica storia ha sollevato e che cerchiamo di approfondire con il pediatra Paolo Peduzzi.
“Si tratta di situazioni molto difficili e sempre molto differenti fra loro, un prontuario quindi non può esistere. Ci sono però due regole base, che valgono per ogni caso. Da una parte bisogna essere sinceri, sempre. Non si possono raccontare balle, per cui bisogna saper dire le cose come stanno. Perché altrimenti, il bambino non è stupido, e quando capirà, avrai messo in forse un rapporto di fiducia estremamente importante sia come medico sia come genitore, soprattutto in una malattia con terapia lunga e ancora di più in una malattia tumorale”.
La seconda invece?
“Dirlo nel modo adeguato, cosa, attenzione, che non esclude affatto la sincerità. Ed entrambe valgono per il paziente bambino come per quello adulto. Se all’arrivo al pronto soccorso, mettiamo il caso, durante la visita si sospetta una diagnosi di tumore, è giusto che il medico sottoponga il suo dubbio, integrando così il paziente nel processo degli accertamenti. Questo è il mio agire, io non nego, non nascondo, non lascio in sospeso. Parlo in modo chiaro fino a che il paziente è in grado di capire. Penso a un caso che mi è capitato quando lavoravo ancora in medicina interna, uno di quelli che ti rimangono perché sono quelli da cui impari qualcosa. Era un uomo di 48 anni, con un’ulcera che si è scoperta dovuta a un tumore allo stomaco. Siamo andati più volte a parlargli, cercando di informarlo. Annuiva. Seguiva il discorso. Sembrava capire ed esser conscio di quanto gli stavamo comunicando e invece poi faceva domande che mettevamo in discussione il fatto che avesse realmente capito. Aveva troppa paura per poterlo prender in considerazione, si stava difendendo e credo non l’abbia mai accettato veramente. Ci sono questi casi estremi. Tante volte puoi informare il paziente come devi, in modo chiaro, e poi ti rendi conti che si rifiuta di capire. Non è mai facile valutare come reagiranno e bisogna quindi ‘ricalibrare’ il discorso, ripetendolo più volte anche, a seconda della reazione. Questo meccanismo nel bambino è ancora più evidente. Se l’adulto nasconde, il bambino cambia direttamente discorso, chiedendoti delle vacanze, dei giochi. Come a dire “ne ho abbastanza, parliamo d’altro”. Allora lo assecondi in questa sua richiesta ed è spesso poi lui stesso poco dopo a tornare sull’argomento, con domande su quanto gli sta accadendo”.
Questo nella migliore delle ipotesi, quando c’è il tempo di parlarne prima con la famiglia e decidere poi, insieme, come affrontare l’argomento con il bambino. Anche perché si è legalmente obbligati a farlo. Ma casi come quello di Alice, dove per l’urgenza si è saltato questo passaggio, devono essere anche per il bambino un modo di apprendere la notizia ancora più scioccante, perché oltre a venirne a conoscenza in maniera molto diretta, lo fa nel momento stesso dei genitori, che non hanno avuto quindi modo di prepararsi alla diagnosi e a come supportare il figlio.
“Non so come sia successo, ma do ragione, è assurdo quanto accaduto. In pediatria lavori sì con i bambini, ma anche con i loro genitori. Io non ho mai davanti a me solo il bambino, ma la famiglia intera. Inoltre è davvero un mondo a parte anche nel rapporto con l’adulto. Mi è capitato di conoscere alcune donne quando ero ancora in ginecologia e ritrovarle come madri da pediatra. Quando si era trattato di problemi legati a loro stesse, sapevano gestire la cosa in maniera molto più ‘razionale’, calma diciamo. Quando invece si trattava dei loro figli, e vale anche per i padri, emergono paure, ansie, angosce che per se stessi non si hanno. Una reazione in qualche modo ancestrale, di cui però bisogna tener conto e offrire un sostegno anche a loro. È impossibile pensare al bambino come a un paziente a sé, slegato dal suo contesto”.
Quindi nemmeno l’urgenza giustifica un errore come quello fatto nel caso di Alice, dove la comunicazione è stata fatta sì ai genitori, ma in presenza della bambina?
“Sinceramente, portatemi un esempio dove si ha un’emergenza tale che obbliga a comunicare la cosa direttamente al bambino. Di solito non è mai solo, c’è comunque sempre un adulto con lui. Se per qualche motivo bisogna aspettare i genitori, nel mentre si parla al bambino spiegandogli cosa si sta facendo, dicendogli che mamma e papà arriveranno presto e intanto cominciamo a fare una puntura, una lastra, un esame per vedere cosa c’è che non va. Ma non vai mai a dare una diagnosi. L’urgenza non giustifica un “acca” di niente. Poi dipende anche dai genitori, a volte dici loro che vuoi parlargli e si presentano al colloquio con il figlio. Allora cerchi di spiegare che prima bisogna discuterne da soli, fra adulti, e con il bambino si parlerà dopo tutti assieme. Penso siano cose relativamente scontate. Non so cosa possa esser successo in questo caso specifico. Magari ha giocato molto l’agitazione data dal comunicare una cosa simile, perché sono casi che spesso non lasciano indifferenti. Ma una diagnosi comunicata in questo modo, non è assolutamente la normalità”.