CRONACA
Dalle lettere d'amore giovanili al letto di morte: lo strepitoso ritratto (tra pubblico e privato) di Plinio Martini firmato da Armando Dadò. I turbamenti, gli amori, la politica, la fede del grande scrittore ticinese
L'editore locarnese racconta: "Plinio Martini abitava a pochi metri da casa mia, è stato mio maestro di scuola elementare, ha partecipato all’avventura di avviare un’azienda tipografica e l’ho frequentato per tutta la vita...."
© CER / Ti-Press / Samuel Golay
di Armando Dadò*

 

Plinio Martini abitava a pochi metri da casa mia, è stato mio maestro di scuola elementare, ha partecipato all’avventura di avviare un’azienda tipografica e l’ho frequentato per tutta la vita. Benché lo abbia conosciuto molto bene, di lui mi sfuggivano alcune cose, relative in particolare ai suoi primi anni giovanili. Il Diario e le lettere giovanili, presentato a Lugano alla fine dello scorso anno, è stato per me e per molti altri una sorpresa. Dobbiamo un sincero plauso al figlio Alessandro, professore emerito all’Università di Friburgo, per aver dato alle stampe questa ricca documentazione che va dal 1940 al 1957, facendola precedere da una sua splendida introduzione.

 

Le titubanze della fidanzata

 

Si tratta in primo luogo di un Martini ventenne, che scrive alla fidanzata Maria, che diventerà sua moglie qualche anno più tardi. In queste lettere si possono intravedere alcuni aspetti del suo carattere. Martini è un giovane di salute un po’ cagionevole, nato in fondo a una valle in una famiglia di otto fratelli. Ha studiato da maestro e vorrebbe proseguire gli studi all’università. Manifesta un carattere molto tormentato e attraversa momenti di alti e bassi. Sovente è in preda alla malinconia, alla tristezza e all’infelicità. «Il mio morale è piuttosto giù. O meglio, è variabilissimo, proprio come il tempo di marzo. Amare a vent’anni vuol dire sentirsi felice o infinitamente infelice a ogni muovere di foglia. L’oggetto del mio amore è una ragazza di Bignasco. Non è bella e ha quasi dieci anni più di me», scrive in una sua lettera. Non ci sono le risposte della destinataria; si capisce tuttavia che lei doveva avere qualche titubanza di fronte a un fidanzato ancora così giovane, con un carattere così diverso, lei molto più equilibrata, saggia, prudente e piena di buon senso pratico. Ma lui è determinato e scrive: «Lo vedo, lo sento che tu soffri quando pensi che io sono giovane, ventenne o quasi. Lo so, sono giovane, molto giovane, ho ventidue anni, con tutti i difetti, che sono molti, e le poche virtù che questa età comporta». In una delle lettere successive scrive: «Ti voglio così bene che non vedo in te che virtù». Infine si sposa a Bignasco, coronando il suo sogno. Dal matrimonio con Maria Del Ponte ha cinque figli, due dei quali muoiono quasi subito. Alessandro seguirà la via degli studi letterari, Luca sceglierà la biologia e l’insegnamento, Lorenzo diventerà architetto.

 

I rapporti con don Leber

 

L’ambiente in cui Martini nasce è molto religioso: entra nell’Azione cattolica, partecipa a Lugano agli Esercizi spirituali e vorrebbe avviarsi verso la santità. Partecipa alle funzioni religiose, si accosta alla Comunione, cerca di fare del bene e di non dare dispiaceri ai genitori, un papà molto buono e retto e una «mamma di fuoco». Comincia a scrivere le prime poesie ed entra in contatto con don Alfredo Leber, direttore del Giornale del Popolo. Con Leber si instaura un rapporto di grande amicizia. Leber gli vuole bene, lo apprezza e gli pubblica le prime poesie. Più tardi lo inviterà a tenere conferenze sulla Bibbia nell’ambito dell’Azione cattolica. Leber arriva più volte anche a Cavergno e gli fa conoscere Biscossa, Agliati, Bonalumi e Vincenzo Snider. È un rapporto che si fa più intenso col passare degli anni. Martini comincia ad avvertire l’ebbrezza di vedere stampati i suoi scritti e prova «l’immenso onore di entrare a far parte della piccola repubblica dei poeti e scrittori ticinesi». Entra pure in contatto con Carlo Castelli, che incontrerà a Bosco Gurin, e con qualche critico italiano. Lo apprezzano, ma non gli mancano i detrattori verso i quali Martini, dotato di pochi freni, va giù pesante: «Mi sembra di avere il diritto di pensare ch’egli è un perfetto imbecille dotato di una discreta intelligenza».

 

Oltre ad aver vicino don Leber, i rapporti si fanno particolarmente amichevoli con Giuseppe Biscossa. In una lettera gli confessa: «Carissimo amico, il mio cuore è come il cielo, e per poco si annuvola o si rischiara, per un soffio di vento». Di lettere ne manda parecchie a Biscossa. Sono molto interessanti: parla di poesia, di letteratura, d’arte e di religione: «Essere cattolico vuol dire vedere le cose in modo diverso dagli altri, con gli occhi di carità, voglio dire, e di speranza. Carità e speranza che sono figlie primogenite della fede».

 

Ezio, il fratello emigrato in America

 

Altro capitolo particolare riguarda la corrispondenza col fratello Ezio, emigrato in America per fare una nuova esperienza e per mettere da parte un gruzzolo che gli permetta di convolare a nozze. Dopo un paio di anni farà ritorno e si sposerà con Cesira, nipote di Giuseppe Zoppi, che riposa nel cimitero di Broglio. La corrispondenza fra i due fratelli è assai calorosa e tratta parecchi temi che concernono anche il tipo di educazione ricevuta. Ezio invierà alcuni articoli che Plinio, tramite il direttore, farà pubblicare sul Giornale del Popolo.

 

I conflitti per la Legge scolastica 
del 1957

 

La proposta del Dipartimento della pubblica educazione di una nuova Legge scolastica concerne anche l’insegnamento della religione nelle scuole. Il vescovo Jelmini trova un accordo con Brenno Galli, direttore del Dipartimento, ma ampia parte del clero ticinese e un certo numero di intellettuali cattolici non condividono. L’avvocato Antonio Snider e il professor Gerardo Broggini danno alle stampe un libro dal titolo Principi cattolici per una riforma scolastica ticinese. Martini si trova in prima fila nel combattere la proposta dipartimentale. In una lettera polemica scritta a Leber parla di «penosa situazione creatasi con il nuovo progetto di legge», per cui «la religione entrerebbe nelle scuole come la serva che per degnazione del padrone può sedere alla loro mensa». E scrive: «Tutto il mio sangue di montanaro attaccato alle tradizioni cristiane del suo popolo, fedele fino alla morte all’immagine del Crocifisso […] Questo sangue si ribella con tutta forza e grida […] Sono tanto convinto di quello che dico, che ci scommetto il mio pane e la mia famiglia». Conclude la lunga lettera scusandosi per la violenza dello scritto. Leber si trova a difendere l’accordo trovato con il vescovo Jelmini. Per contro, Martini ritiene che questo accordo finirebbe con estromettere l’insegnamento della religione nella scuola: e ciò sarebbe gravissimo. Nonostante il vivace contrasto, Martini conclude esprimendo a Leber il suo più grande affetto.

 

La svolta sessantottina 
e l’incontro con Gil

 

Col trascorrere degli anni le inquietudini, che hanno sempre albergato nell’animo di Martini, trovano nuovi sbocchi. Dapprima lascia la scuola elementare di Cavergno e si trasferisce alle maggiori di Cevio. Scende poi per un anno al Negromante di Locarno, come collaboratore di Virgilio Gilardoni. A quest’uomo carismatico, molto attivo nella vita culturale e politica del Cantone, bastano poche settimane per convincere il nuovo arrivato della bontà della dottrina marxista. Martini abbandona le vecchie abitudini e il vecchio credo, lascia la Chiesa e il precedente Partito per entrare a far parte del PSA. Lui, che a suo tempo aveva scritto: «Caino generò i filosofi del materialismo come Carlo Marx», ora sembra aver cambiato pensiero.

 

Quando pubblica il suo primo romanzo Il fondo del sacco, accorrono in molti alla Sopracenerina a fargli festa. I nuovi compagni lo accolgono a braccia aperte. Di questi anni ha scritto ampiamente Ilario Domenighetti, il maggior conoscitore di Plinio Martini, nella sua Biografia e in Nessuno ha pregato per noi. Nel frattempo, anche la vita sentimentale e famigliare si è modificata. Martini scrive di avere un’ottima moglie che però non lo comprende e non ha i suoi interessi; così si innamora di una giovane collega che lo aiuta nella stesura dei suoi testi. Questa situazione finisce fatalmente col rendergli la vita piuttosto complicata.

 

Requiem per zia Domenica

 

Scritto il secondo romanzo, lo vorrebbe affidare a un editore italiano, per farsi conoscere a un pubblico più vasto. Il potente Enrico Filippini, originario di Cevio, allora alla Feltrinelli gli aveva già rifiutato il primo romanzo. Martini si rivolge perciò al Formichiere, una piccola casa editrice milanese di proprietà di Molo e Jacini. La presentazione a Milano da parte di Dante Isella è un trionfo. Ero con lui e ricordo che, rientrando in Ticino, Martini era beato: sembrava proprio un uomo felice. Purtroppo poco tempo dopo l’editore chiuse i battenti e l’eco in Italia fu minimo. Quando nel 2004 noi ristampammo Requiem per zia Domenica, a cura di Ilario Domenighetti, uscì un’ampia recensione sul Sole 24 Ore in cui si parlava esplicitamente di un capolavoro semisconosciuto. Il testo pubblicato a piena pagina sul culturale milanese è un inno al valore dell’opera: con il solo rammarico che i maggiori editori italiani non lo abbiano capito, preferendo chi «scodella libri come le galline le uova». Si faceva giustamente osservare che basta una sola opera di qualità per fare grande uno scrittore. Il critico milanese scriveva in modo perentorio: «Nonostante gli importanti studi che gli sono stati dedicati dall’autorevole padre Giovanni Pozzi, Martini è poco conosciuto al di fuori della sua patria. E però non vediamo, fra gli scrittori di lingua italiana, residenti da noi o altrove, chi abbia esordito a partire dai primi anni Settanta, no, non vediamo nessuno che gli possa essere pari».

 

L’addio

 

A cinquantacinque anni Martini viene operato a Zurigo per un tumore al cervello. Torna a casa e vive ancora due anni. L’uomo è molto cambiato. La sera dopo cena andavo spesso da lui e parlavamo del più e del meno. Era disilluso dall’infatuazione gilardoniana: Gilardoni lo aveva di fatto messo alla porta. Aveva per contro ripreso fiducia in Maria e le manifestava una grande stima. La chiamava continuamente per sentire il suo parere. Non era più l’uomo della prima ora, ma nemmeno quello della successiva. Nel suo breve, ultimo periodo di vita era entrato in una diversa fase esistenziale. Mi ripeteva spesso che stava riflettendo quasi ogni giorno per trovare le giuste espressioni che facessero capire all’uomo contemporaneo la bellezza e la grandezza del Vangelo. «Capisci, mi diceva, il vecchio modo di presentare la religione è come moneta fuori corso. Occorre un altro linguaggio e io ci sto pensando». Nel frattempo, aveva riallacciato i rapporti con don Leber, raffreddatisi nel corso degli anni. Prima di morire, raccogliendo le ultime forze, gli scrisse dandogli del tu, cosa mai fatta: «Caro Alfredo, ti scrivo dal letto di morte. Amo Dio, ma non mi sento di aderire a una Chiesa. Monsignor Togni ti spiegherà. Vi amo lo stesso tutti, gialli e verdi. Addio. Tuo Plinio».

 

Martini muore il 6 agosto 1979. Don Leber scrive il giorno successivo il suo ricordo dal titolo La certezza del ritorno. Ai funerali partecipa una grande folla che il cimitero di Cavergno fatica a contenere. Poco dopo, uscì il suo ultimo libro Delle streghe e d’altro1 con una singolare e toccante prefazione di Basilio Biucchi, scritta in quei giorni così tristi.

 

*Editore - Articolo pubblicato sulla rivista Il Ceresio

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