CRONACA
"La giovinezza passa veloce, come l'aurora". Il 'De brevitate vitae' di Armando Dadò: "Un'età per la riflessione o per il cinismo?"
Le bellissime riflessioni dell'editore ed ex deputato sull'ultimo numero della rivista Il Ceresio
TiPress/Samuel Golay

di Armando Dadò (editoriale del numero di ottobre della rivista 'Il Ceresio')

Quarant’anni or sono accompagnavo spesso Arrigo Caroni sul campo da golf di Ascona. L’avvocato locarnese aveva allora ottant’anni (che si facevano sentire) e, mentre si piegava con fatica per raccogliere la pallina, ripeteva spesso: «Decadenza, decadenza…». Ora gli ottant’anni li ho superati anch’io, non frequento più i campi da golf, ma capisco bene che cosa significhi la decadenza. Gli ultimi dieci anni, a dire il vero, li ho passati abbastanza bene, anche se spesso mi sono ritornati all’orecchio i versi di Giovanni Bianconi: Prima i maa i vegn a ügn a ügn, ma poi al concert u sona in piegn1. È proprio così, come scriveva questo bravissimo poeta dialettale che sapeva cogliere nel segno: non parole di difficile interpretazione, ma espressioni intese a esprimere con chiarezza e con arguzia il succedersi delle stagioni della vita.

L’udito e la vista

Quando non si riesce più ad afferrare qualche parola e si deve chiedere all’interlocutore di ripetere ciò che ha detto, ci si accorge che l’udito si è fatto più debole. È una cosa piuttosto fastidiosa per chi chiede e per chi deve ripetere. Accade in particolare durante le riunioni quando le voci sono diverse e le tonalità differenti. Ci si sente facilmente tagliati fuori, non si afferrano completamente le frasi, mentre gli altri vanno avanti a parlare. Ovviamente si può ricorrere agli apparecchi acustici, ma non sempre i risultati sono soddisfacenti, soprattutto quando ci sono più persone che parlano. Qualche burlone potrebbe dire che ogni tanto è meglio non sentire tutto, ma questo – più che altro – è un modo per sminuire il peso del disturbo.

Accanto all’udito, la vista. E qui sono dolori, almeno per chi è abituato a leggere molto. Si può andare dall’oculista e all’inizio qualche rimedio si trova. Ma poi, col passare del tempo, la situazione peggiora, la vista non è più nitida, sembra avvolta da una nebbia. La lettura si fa difficoltosa e, quando i caratteri sono troppo piccoli, si è costretti a rinunciare. In effetti, anche i nostri occhi invecchiano e quando sono consumati non resta altro che rassegnarsi. Non parliamo poi della memoria; terreno insidioso, pieno di buche, fra tanti nomi che non si ricordano più. Un tema che, a svilupparlo qui, richiederebbe troppo spazio.

La perdita delle forze

L’invecchiamento si manifesta a poco a poco con la diminuzione delle forze e il rallentamento delle attività fisiche. Le gambe non sono più quelle di una volta: le camminate sono più faticose, le scale che prima si facevano quasi di corsa, ora sono diventate problematiche. Anche l’equilibrio non è più quello di prima, è più incerto e domanda, dove è possibile, un corrimano. Può capitare di cadere e allora il rialzarsi è più difficoltoso: occorre stare attenti a non peggiorare le cose. Ricordo Mario Agliati al quale nei suoi tardi anni consigliavo amichevolmente di servirsi di un bastone. Questi mi rispondeva: «Sì, certo hai ragione, ma il bastone lo uso malvolentieri. Sai, una certa qual civetteria».

Tutta l’atmosfera è diversa, a cominciare dal mattino quando il risveglio si fa più lento e difficile. Non si sta subito ben diritti e si va a prendere il caffè con passo ancora incerto. Ed è paradossale: quando abbiamo meno impegni, abbiamo pure meno tempo perché le cose pesano di più e si fanno più adagio.

Il concerto di Bianconi

Ed ecco il «concerto» che suona al completo, di cui parla Bianconi. I fastidi nel corpo si fanno sempre più sentire. A volte sono piccoli, ma frequenti: dolori alle spalle, alle gambe, soprattutto alle ginocchia. Anche l’attraversare la strada diventa più problematico. Diversi mali con qualche medicina se ne vanno, ma poi ritornano. Sono dolori tipici degli anziani e, quando ci si incontra tra vecchi, si finisce immancabilmente per parlare di questi inquilini indesiderati e si accenna ai rimedi, al numero e alla dose di pastiglie e medicamenti. Ma non bisogna lamentarsi continuamente e lasciarsi andare a ripetuti piagnistei, non bisogna vedere il bicchiere solo mezzo vuoto. Occorre imparare a convivere con questa stagione della vita che porta inevitabilmente le caratteristiche del corpo stanco e indebolito dagli anni.

Gli amici e gli alberi che cadono

Gli amici sono un dono prezioso da coltivare con cura. Con loro si possono avere incontri piacevoli, ci si può confrontare sul piano delle idee e sulle esperienze fatte lungo il cammino, perché ognuno ha la propria storia e la sua traiettoria. Durante la vecchiaia ci si rende ancora più conto di come siano un privilegio insostituibile. In particolare quando molti alberi cadono attorno a noi. Un giorno viene a mancare un coetaneo con cui si sono trascorsi gli anni di scuola; un altro giorno si legge della scomparsa di un amico conosciuto a militare; poi uno con cui ci si trovava al caffè o al gioco delle carte; poi un altro ancora che si sentiva raramente, ma era particolarmente importante in talune occasioni.

Gli amici aiutano molto a combattere la tristezza della solitudine. Vengono particolarmente apprezzati quando si è degenti in ospedale e arrivano a farci visita: sono boccate d’ossigeno in momenti in cui se ne ha veramente bisogno. «Per chi ha vissuto una vita nella quale l’amicizia è stata la più coinvolgente avventura di amore – scrive Enzo Bianchi – non poter più camminare assieme con l’amico o l’amica è una ferita che non si cicatrizza». Ma l’amicizia per conservarsi domanda attenzione, disponibilità e generosità in ogni circostanza della vita. Ci vuole poco a compromettere o incrinare un rapporto; a volte bastano pochi istanti di malumore per portare a qualche sconveniente espressione di sgarbatezza.

Un’età per la riflessione o per il cinismo?

La giovinezza passa veloce come l’aurora: è la stagione degli amori, dei grandi ideali, delle grandi passioni. Dura un soffio e poi subito ci si trova proiettati nella maturità, quando la persona mette generalmente a frutto le sue conoscenze e capacità nell’affrontare la vita lavorativa. Quando poi si entra nell’ultima stagione, prima dell’esodo definitivo, si potrebbe immaginare un periodo di riflessione sul senso della vita. Ma non è sempre così. «Il rischio di raccogliere ciò che si è seminato – scrive ancora Enzo Bianchi – è reale. Dall’ascolto di tante vecchiaie deduco che uno dei rischi più frequenti è quello di diventare cinici dopo i cinquant’anni e quindi di non avere più grande fiducia, di non nutrire più speranza. Sento dire: ne ho viste tante, non vale la pena pensare agli altri, devo pensare a me. Sono lamenti che soffocano progressivamente il respiro, paralizzano i sentimenti, spengono qualsiasi passione e rendono il cuore calloso e insensibile. E così l’“amare ed essere amati”, questa straordinaria dinamica che dà senso alla vita, a poco a poco si spegne, e allora si muore prima che venga il decesso fisico, in una tristezza che è noia e non senso»2.

La campana del villaggio

Come alternativa si può approfittare degli anni della vecchiaia per ricordare come è stata percorsa la traiettoria dell’esistenza, per riflettere sulla vita: quanti passaggi, quanti momenti belli e anche tristi, quante cose ben fatte e quanti errori, quante cortesie ma anche arroganze fuori luogo.

E come dimenticare i soggiorni al CHUV di Losanna e all’Hirslanden di Zurigo con i ferri del chirurgo che entravano nella carne? In quelle drammatiche circostanze non capivo bene se ero più di qua o più di là. E la bravura dei medici – Tartini in primis –nel riportarmi alla riva? E poi riflettere sul gran mistero della vita e del mondo, circondati da buone letture e da amici cari, approfittare di qualche spazio libero, leggere quei libri importanti che prima si erano messi da parte: tutto questo può essere buona cosa.

Per quanto mi riguarda, mi soffermo spesso sulle ingiustizie del mondo, sulla cattiva distribuzione dei beni della terra, sul fatto che uno che nasce qui è immensamente più fortunato rispetto a uno che viene alla luce nel Congo o in altre regioni dell’Africa. Con quali meriti e con quali demeriti? Perché deve sempre prevalere l’egoismo individuale, dei popoli o delle nazioni? Perché trionfa da sempre il Regno dell’Ingiustizia? E così, di mese in mese, mi avvio verso il tramonto definitivo. Senza premura, senza fretta, ovviamente. Con la speranza, che è di tutti, di non dover sottostare a lunghe malattie e sofferenze come compagnie indesiderate degli ultimi giorni. E poi ritornare alla terra, quella stessa terra che mi ha dato i natali, accompagnato dalla mia gente e dalla campana del villaggio che ben sa esprimere l’atmosfera dell’ultimo viaggio.

Note

1. Giovanni Bianconi, «La parabola» in Tutte le poesie, Dadò editore, Locarno.

2. Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose e autore di diversi libri, interviene regolarmente al Salone internazionale del libro di Torino.

 

 

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