CRONACA
I Pattini d’Argento e i sogni infranti
Articolo 4 della Carta etica di Swiss Olympic: “Le misure adottate per raggiungere gli obiettivi sportivi non ledono né l’integrità fisica né l’integrità morale delle sportive e degli sportivi”

di Marco Bazzi

A questo punto, dopo la bufera, dopo la baraonda suscitata dalla notizia (LEGGI QUI), dopo la girandola di dichiarazioni, articoli, indiscrezioni e testimonianze, è opportuno fermarsi a riflettere. Riflettere su quello che è successo negli ultimi due o tre anni sulla pista della Reseghina, dove ogni giorno si allenano decine di ragazze che sognano, come Hans e Gretel nel celebre romanzo di Mary Mapes Dodge, di vincere i Pattini d’Argento. Ambientato in un villaggio olandese dell’Ottocento, il romanzo della scrittrice americana è considerato un inno alla gioia nel quale i bambini, grazie alla forza che deriva loro dal sogno, dimostrano perseveranza e voglia di cambiare il mondo.

Il sogno, inteso come passione, come desiderio di raggiungere un obiettivo, di affermare se stessi, di trovare una propria collocazione nel mondo e nella società, è un elemento fondamentale nel processo di crescita e di maturazione di ogni individuo. È una molla che genera energia e volontà, che plasma la realtà, e che ci accompagna per tutta la vita. E i sogni dei bambini e dei ragazzi sono sacri.

Gli adulti, siano essi genitori o maestri, di ogni e qualsivoglia disciplina, hanno il dovere di coltivarli, quei sogni, di rispettarli, e non di infrangerli. Hanno anche il dovere di spiegare, a chi sta muovendo i primi passi sulla strada della vita, che ogni individuo ha i propri limiti, che possono essere dilatati e superati fino a un certo punto, ma non oltre. E che accettare i propri limiti non è una sconfitta, ma una vittoria. Gli adulti hanno, soprattutto, il dovere di rispettare la fragilità che accompagna ogni adolescente nel suo processo di crescita.

“Incoraggiare rispettosamente senza esagerare”: è il titolo del quarto principio della Carta etica di Swiss Olympic, Carta alla quale il Club Pattinaggio Lugano afferma di volersi ispirare. Il testo recita: “Le misure adottate per raggiungere gli obiettivi sportivi non ledono né l’integrità fisica né l’integrità morale delle sportive e degli sportivi”. E all’articolo 6 si legge: “La violenza psicofisica e qualsiasi forma di sfruttamento non vengono tollerate. Sensibilizzare, vigilare e intervenire in maniera adeguata”.

Crediamo che, a questo punto, dopo quanto è stato accertato nel corso dell’inchiesta condotta dal Tribunale Arbitrale di Swiss Ice Skating, le cui conclusioni abbiamo pubblicato mercoledì mattina (dopo una settimana di riflessioni, di valutazioni e di approfondimenti), e sulla base delle numerose testimonianze emerse in seguito a quell’articolo, non ci siano più margini per temporeggiare. Da parte del Comitato del Club luganese ci si attende una presa di coscienza che finora è mancata. Con i relativi provvedimenti.

Non ce lo attendiamo noi, perché il fine dell’inchiesta giornalistica che abbiamo condotto non era la gogna mediatica o il linciaggio nei confronti di chiccessia. Il fine era la difesa di chi in questa brutta storia che fa male allo sport rappresenta la parte più debole, più fragile. La difesa di chi ha visto infranti i propri sogni su una pista che è diventata il teatro dell’insulto, delle ragazzine che sono state costrette ad andarsene, e che in alcuni casi hanno deciso di appendere al chiodo i loro Pattini d’Argento.

Non ce lo attendiamo noi, dicevamo. Se lo attendono l’opinione pubblica, il mondo dello sport, le famiglie che hanno avuto il coraggio di andare fino in fondo, senza chiudere gli occhi per il quieto vivere. Se lo attende, crediamo, anche il Municipio di Lugano, che rappresenta la Città, proprietaria della pista di ghiaccio.

C’è chi sostiene, oggi, alla luce di quanto è accaduto, che alcuni comportamenti vessatori possono essere ammessi in quanto “lezioni di vita”, strumenti disciplinari che servono a plasmare il carattere delle giovani atlete aprendo loro la via luminosa del successo e della vittoria. Tesi che, sinceramente, non riusciamo a condividere, e che contrastano in modo stridente con i principi della Carta etica dello sport.

A proposito di “disciplina” è interessante leggere quanto scrive il filosofo Michel Foucault nel suo saggio “Sorvegliare e punire”: “La disciplina non è un potere trionfante (…). È un potere modesto, sospettoso, che funziona sui binari di un’economia calcolata, ma permanente. Modalità umili, procedure modeste, se confrontate ai rituali maestosi della sovranità o ai grandi apparati dello Stato”.

Il successo del potere disciplinare, conclude il filosofo francese, “deriva senza dubbio dall’uso di strumenti semplici: il controllo gerarchico, la sanzione normalizzatrice e la loro combinazione in una procedura che gli è specifica: l’esame”.

Queste parole meritano una riflessione che va oltre il caso specifico. Meritano una riflessione da parte di chiunque sia chiamato a esercitare un potere disciplinare: nella scuola, nello sport, nell’esercito e nel mondo del lavoro.

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