"Ricoprendo ruoli pubblici e professionali delicati, mi sono trovata ogni giorno costretta a dover apparire forte, presente, competente – mentre dentro ero a pezzi"
Simona Genini, lei è una donna, una mamma, una persona impegnata in politica e attiva professionalmente come imprenditrice. Quanto è stato difficile sopportare nella vita quotidiana la vicenda che l'ha vista vittima di stalking? E qual è stato l'elemento che l'ha fatta soffrire di più?
"Dopo la morte di mia madre, questo è stato uno dei momenti più difficili della mia vita. Se sono riuscita ad andare avanti, è stato innanzitutto per mio figlio – per il quale, oltre a un amore profondo, anche se forse non sempre percepito, sento la responsabilità della sua crescita. E poi grazie a chi mi è stato vicino con discrezione e presenza: il mio avvocato, che è anche un amico prezioso; il mio psichiatra, che non mi ha mai lasciata sola, nemmeno nei fine settimana; e una piccola cerchia di amici che sapeva tutto e non mi ha mai giudicata, né fatto mancare la vicinanza.
Ricoprendo ruoli pubblici e professionali delicati, mi sono trovata ogni giorno costretta a dover apparire forte, presente, competente – mentre dentro ero a pezzi. Mi ricordo che alcuni giorni, tra un appuntamento e l’altro cercavo rifugio nell’ufficio di un amico che aveva un divano, per poter riposare e riprendermi un attimo perché, come spesso mi accadeva, la notte non avevo chiuso occhio oppure avevo appena letto l’ennesimo “attacco” sui social.
Con mio figlio, è stato doloroso anche il non poter essere presente come avrei dovuto e il dover spiegare a un adolescente che la risposta giusta è la giustizia, ma non quella fai da te.
La sofferenza più grande è stata causata dalla violenza psicologica subita attraverso quei messaggi, post e storie, che invadevano la mia quotidianità e la mia intimità. Quando qualcuno minimizzava dicendomi "ma è solo una mail", "è solo un post, una storia", "è una pazza, lascia perdere", non si rendeva conto del peso reale che quelle parole avevano.
Così, oltre al danno, ho dovuto subire anche la beffa: da un lato lo sforzo di apparire “normale” agli occhi dell’esterno, dall’altro l’essere fraintesa o addirittura screditata proprio perché riuscivo, con grandi sforzi, a farlo. Non mi stupisce che alcune vittime, in situazioni simili, arrivino a gesti estremi – lesivi o autolesivi - nel tentativo di sopravvivere o di non più soffrire.
Cosa consiglia alle persone che si trovano in una situazione analoga a quella da lei vissuta e che non hanno la forza o le risorse finanziarie per reagire?
Prima di tutto: non tacere. Tacere significa diventare vittime due volte – la prima del comportamento persecutorio, la seconda del silenzio che isola, logora e protegge chi agisce nella violenza. Parlare è già un atto di resistenza, un primo passo per riprendere in mano la propria dignità e la propria vita.
Rivolgersi al Servizio per l’aiuto alle vittime di reati del Canton Ticino o alle associazioni attive sul territorio è utile. Lì si trovano persone preparate e pronte ad accogliere senza giudicare e ad aiutare ad affrontare percorsi difficili, ma necessari. E poi, naturalmente, denunciare, che non è solo un gesto di coraggio: è soprattutto un atto di tutela verso sé stessi, verso chi ci è vicino, e verso tutte le altre persone che potrebbero subire situazioni simili.
Lo so bene: le risorse finanziarie possono rappresentare un ostacolo importante. In questi casi, per fortuna esiste il gratuito patrocinio, che consente a chi non ha i mezzi economici di essere comunque rappresentato da un avvocato. Inoltre, ci sono professionisti che scelgono, per convinzione etica, di seguire gratuitamente casi come questi.
Tuttavia, il sistema giudiziario – pur con le migliori intenzioni – non sempre riesce a intervenire con la prontezza che servirebbe. Non è una questione di negligenza, ma di strumenti e di sensibilità.
Infine, una cosa che spesso si sottovaluta: il supporto psicologico è essenziale. Dopo settimane o mesi di paura, umiliazioni, ci si sente svuotati dentro, stanchi in modo profondo, ci si guarda allo specchio e non ci si vede più. Avere qualcuno che ci aiuti a rimettere in ordine pensieri, emozioni, priorità, è un elemento imprescindibile per uscire davvero dalla spirale della sofferenza.
Il mio consiglio? Non rimanere sole. Non rimanere soli. Parlare, chiedere aiuto, reclamare protezione. È un diritto, non un favore.
Secondo il suo vissuto, la legislazione attuale è sufficientemente efficace? E la società è attrezzata per sostenere le vittime di stalking?
"Le Camere federali hanno recentemente approvato l’introduzione di una nuova fattispecie di reato nel Codice penale dedicata specificatamente allo stalking. Attualmente, il disegno di legge è in fase finale di conciliazione tra il Consiglio nazionale e il Consiglio degli Stati. Una volta adottata, la nuova norma fornirà finalmente una base giuridica più chiara e più adeguata rispetto alla disposizione attuale sulla coazione, che non è adatta a sanzionare efficacemente tutte le dinamiche persecutorie.
Si tratta sicuramente di un passo avanti atteso da tempo, ma si poteva fare di più. Come ha ben evidenziato la collega Roberta Soldati nella sua iniziativa cantonale, è fondamentale che il reato di stalking venga riconosciuto non solo nella sua dimensione giuridica, ma anche nella sua gravità sociale ed emotiva. Serve una risposta proporzionata, con sanzioni che riflettano la reale portata della violenza psicologica che lo stalking comporta.
Anche sul piano sociale, purtroppo, c’è ancora molta strada da fare. Le vittime non affrontano solo la solitudine e la paura, ma spesso anche l’incredulità, la minimizzazione, o persino il giudizio ostile da parte dell’ambiente che le circonda. E oggi, lo stalking assume sempre più spesso una forma digitale, attraverso i social media, strumenti che rendono la persecuzione più subdola, più capillare e più difficile da fermare. La ormai dilagante violenza verbale (il cosiddetto hate-speech) favorisce il fenomeno dello stalking quando non addirittura non diventa lo strumento per perpetrarlo.
Proprio alla luce della mia esperienza, ho deciso di devolvere il simbolico risarcimento per torto morale che mi è stato riconosciuto all’associazione Stop Hate Speech, attiva nella Svizzera tedesca e francese, chiedendo loro ad esempio di valutare la possibilità di avviare anche in Ticino un monitoraggio sistematico dei discorsi di odio e delle molestie online. Ci sono anche altre vie da percorrere sulle quali sto ragionando. Credo che sia comunque necessario lavorare non solo sulla repressione, ma anche sulla prevenzione e sulla consapevolezza collettiva. Dobbiamo tornare a capire che le parole sono atti, non suoni. Sempre, ma specialmente nel discorso pubblico e in quello educativo".