Riflessioni e ricordi a margine della manifestazione alla stazione di Lugano: ecco perché non giudico quei ragazzi
di Andrea Leoni
Non giudico i manifestanti che hanno tentato di occupare la stazione di Lugano. Non li giudico perché l’ho fatto anch’io.
Correva l’estate del 2001 e nei giorni precedenti al G8 di Genova, si tennero a Chiasso diverse manifestazioni di protesta. Non autorizzate, naturalmente. Il movimento No Global, nato a Seattle un paio d’anni prima, era al massimo del suo splendore. La fauna che lo componeva era variegata, disomogenea, disorganizzata - e per questo durò poco - e andava dagli anarchici duri e puri fino a una parte del mondo cattolico terzomondista. C’erano anche i sindacati, una fetta dell’associazionismo interessato ai diritti umani e al commercio equo e solidale, ambientalisti, anche se la maggioranza pendeva chiaramente a sinistra. “Un mondo migliore è possibile”, era lo slogan che andava per la maggiore, insieme al coro: “Passano le merci/non passan le persone/è questa la loro globalizzazione”. “No logo” di Naomi Klein, il libro simbolo. Manu Chao, il cantante. Vandana Shiva, Noam Chomsky ed Eduardo Galeano, gli intellettuali più citati. Letti davvero, non so. Alcune delle istanze di allora sono state ruminate nei decenni successivi dalla destra e oggi, rivisitate, sono patrimonio di un certo sovranismo.
In quell’estate, a Chiasso, confluirono da nord compagne e compagni che intendevano raggiungere il capoluogo ligure, per unirsi al movimento nella grande protesta contro i grandi della terra. Per qualche giorno occupammo abusivamente una villa abbandonata, piuttosto fatiscente, in viale Volta, pieno centro, ribattezzata per l’occasione “Hotel Genova”. Quella casa non c’è più.
Intorno a noi c’erano diffidenza, ostilità ma anche simpatia. Accanto a chi ci dava dei parassiti, dei brozzoni, dei fancazzisti, vi erano persone, alcune delle quali molto borghesi - e noi cantavano a pappagallo “borghesi, borghesi, ancora pochi mesi”, senza capirne bene il significato, come per altri canti di eredità sessantottina - che ci manifestavano sostegno e ci facevano recapitare di soppiatto le provviste: panini, pizze, casse di bibite, dolciumi. Commercianti ed esercenti, per contro, temevano il nostro avvento, preoccupati per le vetrine o per ordinazioni non coperte dai soldi che avevamo in tasca.
Quasi vent’anni dopo i ricordi sono sbiaditi, si sommano e si confondo. Prendeteli con il beneficio d’inventario. Di sicuro (come testimonia la foto trovata nell'archivio di Ti Press) un giorno occupammo i binari della stazione. I poliziotti, a due a due, ci portavano via di peso, per braccia e gambe. Ci fu anche qualche tafferuglio. In quei momenti basta un nonnulla per incendiare la tensione: uno sguardo, una mossa improvvisa, una parola di troppo, un rumore. Tra di noi c’erano personaggi con il volto mascherato e io non li capivo allora e non li capirò mai. Sfidare la legge e l’autorità con il viso coperto, è una vigliaccheria che spoglia il senso stesso della protesta e ne spegne il brivido. Se devo mandare affanculo il potere, è bello farlo rivendicandone la firma. Sembra paradossale, ma c’è un’educazione alla responsabilità in tutto questo.
Non ho mai condiviso quelli che si coprivano il volto e neppure quelli che lanciavano oggetti contro la polizia. Purtroppo accade anche allora, come pare l’altra sera a Lugano. Fortunatamente quelli più grandi a noi vicini, ci avevano insegnato - citando il Pasolini su Valle Giulia - che gli agenti non erano il nemico da colpire, ma dei lavoratori che stavano lì per portare a casa il pane. La maggioranza in scienza e coscienza, alcuni con l’animosità delle teste calde. Come sempre avviene e come potevamo riscontrare anche tra le nostre fila. E così nelle manif, le ho sempre e solo prese. Di striscio e poche, per fortuna.
Dopo la stazione occupammo la strada adiacente, l’unica trafficatissima arteria con sfogo sulla dogana di Chiasso strada. Tra passeggeri e pendolari, scompaginammo i piani giornalieri a un sacco di persone che non mancarono di esternarci la loro collera sacrosanta. Ci sedemmo sull’asfalto proprio in faccia alla gendarmeria e con la dogana alle nostre spalle. Seguirono ultimatum della polizia: o sciogliete l’adunata o carichiamo. Tra un abbozzo di trattativa e una promessa di linea dura, il tempo sembrava cristallizzato. Per darci coraggio ci abbracciavamo, accovacciati, stringendoci sotto braccia gli uni agli altri. A un certo punto il tappo saltò. La polizia ci disperse con i lacrimogeni e qualche randellata. Ricordo ancora il bruciore degli occhi e nella gola provocato dal gas urticanti. Gli urli di dolore di chi aveva assaggiato il manganello, alcuni enfatizzati a favore di telecamera, altri del tutto corrispondenti ai lividi.
Seguirono altre manifestazioni, sempre non autorizzate, ma informalmente concordate, almeno nei percorsi e nei tempi. Non vi fu nessun altro scontro con la polizia. All’apice di una di queste marce fu occupato il piazzale della dogana. Un furgoncino faceva da dj set, ci furono canti e balli festosi, giocammo a pallone. E poi tutti a casa, ordinatamente. Il confine con l’Italia era transennato e presidiato da polizia e carabinieri. Con gli agenti italiani s’instaurò una bel rapporto, tanto che a un certo punto abbassarono gli scudi e si tolsero i caschi (col caldo che faceva…). Uno di loro, piuttosto anziano e con compiti di comando, ci disse: “Ragazzi, non fate troppo casino che stasera c’è il compleanno di mia figlia”. Poche parole, una bella lezione.
Ora, guardando ai fatti di Lugano, potrei cavarmela dicendo che erano altri tempi. Che non c’era la pandemia. Che gli ideali che muovevano la nostra protesta erano più alti, più nobili, più importanti, di quelli dei ragazzi dell’altra sera. Ma finirei per precipitare nella retorica dell’adulto che impone, con pregiudizio generazionale, la qualità dei suoi valori rispetto a quelli dei giovani d’oggi. Preferisco passare per scemo. E allora dirò solo questo.
Da un lato non mi sfugge il pensiero anarchico che porta ad opporsi a una decisione democratica e alla democrazia stessa, che resta comunque un esercizio del potere. Chi non lo comprende si riascolti la “Smisurata Preghiera” di Fabrizio De André, ripresa da un testo di Alvaro Mutis, dove è proprio “la maggioranza”, che sta, ad essere il grimaldello di chi comanda sulle minoranze: “come una malattia/come una sfortuna/come un’anestesia/come un'abitudine”. D’altro lato però faccio una gran fatica a vedere degli anarchici - per una strana legge del contrappasso - difendere quello che certamente è anche un simbolo di negazione, di maschilismo, di sottomissione. Per di più utilizzato anche in chiave religiosa. Il burqa o il niqab, insomma.
Non vogliamo, qui ed ora, entrare nelle conseguenze politiche dei fatti avvenuti l’altra sera: lo sgombero o meno dell’ex Macello. I rapporti tra le autorità luganesi e gli autogestiti è talmente consumato, da porsi al di fuori dei singoli eventi. Rapporti che sono esacerbati anche con una parte importante della popolazione. E questo conta.
In logica, infatti, non può esserci un nesso causale diretto tra una manifestazione e la presenza di un centro sociale. Non è che chiudendolo, o spostandolo altrove, si eviteranno in futuro questo genere di proteste. Le persone non scompariranno. E neppure si può pensare che l’autorità pubblica agisca per ripicca. Tuttavia, il punto, a Lugano, è l’esasperazione dettata dall’incapacità di risolvere in accordo un problema che si trascina da troppi anni: quale spazio dare all’autogestione e dove? Un rompicapo che fa saltare i nervi anche perché altrove, in Svizzera, lo hanno già sbrogliato da un pezzo.
Non giudico quei ragazzi perché io, tornassi indietro, rifarei quel che ho fatto. E chissà magari potrei anche ripetermi in futuro, sempre che non mi senta troppo ridicolo ad occupare uno spazio pubblico, col vestito, il pudore e l’apatia ideale che gli anni portano in dote.