"La libertà non è una voce accessoria nel contratto. È la condizione non negoziabile della nostra identità. E no, non è in vendita"
di Piero Marchesi*
Paragonare il patto di sottomissione all’Unione europea al Patto del Grütli non è solo una forzatura storica: è un insulto all’intelligenza degli svizzeri. Eppure, con stupefacente disinvoltura, il consigliere federale Beat Jans ha avuto il coraggio di farlo, affermando che l’accordo messo in consultazione dal Consiglio federale sarebbe una « promessa reciproca in tempi difficili », proprio come quella del 1291 tra Uri, Svitto e Untervaldo. Una trovata che, più che scandalosa, è tragicomica.
Il Patto del Grütli fu un gesto di ribellione, di autodeterminazione e di coraggio: tre comunità alpine che si impegnarono ad aiutarsi reciprocamente contro tutti coloro che avessero fatto loro violenza o torto, a rifiutare la presenza di giudici stranieri ma anche a mantenere inalterati i rapporti di potere esistenti. Un patto tra eguali che in sintesi diceva: « A casa nostra, comandiamo noi ».
L’accordo con Bruxelles, invece, è la firma in calce a un contratto di subordinazione. Un documento che ci obbligherà ad adottare automaticamente il diritto europeo, ad accettare giudici esterni sotto l’etichetta rassicurante di «tribunale arbitrale », e a garantire accesso privilegiato a un’immigrazione che già oggi fatichiamo a gestire.
Tutto questo, ovviamente, condito dalla solita favola dell’accesso al mercato unico come se ce lo stessero regalando. Questo «vantaggio » costerà alla Svizzera la scandalosa cifra di 1,4 miliardi di franchi l’anno (pagina858 del Rapporto del Consiglio federale).
E mentre ci raccontano che si tratta di un rafforzamento della sovranità, ci chiedono di abbandonare proprio ciò che ci rende sovrani: la libertà di scegliere, di votare, di dire no. In nome della «prosperità», si baratta il cuore pulsante della nostra democrazia diretta.
La verità è semplice: questo accordo non ha nulla a che vedere con il Grütli. È piuttosto un obbligo a inchinarsi, giornalmente e perennemente, al cappello del balivo Gessler. Una resa camuffata da accordo amichevole, dove uno detta e l’altro obbedisce col vantaggio di poter dire che « lo abbiamo fatto volontariamente ».
L’UDC a Berna è oggi l’unico partito che ha il coraggio di dire le cose come stanno. Gli altri, chi per convinzione, chi per convenienza, si affrettano a piegare la schiena. Ma noi no. Noi non firmiamo cambiali in bianco a Bruxelles. Noi crediamo che la Svizzera non abbia bisogno di padroni esterni, ma di fiducia nei propri cittadini.
La libertà non è una voce accessoria nel contratto. È la condizione non negoziabile della nostra identità. E no, non è in vendita.
*presidente e consigliere Nazionale UDC