SECONDO ME
Don Leo, Angelica Lepori: "Giustizia con i guanti"
"Si tratta di un grave segnale di una regressione politica e morale che, come hanno dimostrato le sue vicende interne, ha investito alcuni dei giudici del Tribunale penale cantonale"
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Sentenza Don Leo, Dadò: "Pena ridicola!"

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di Angelica Lepori*

Inquietudine, rabbia e indignazione: sono questi i sentimenti che accompagnano la sentenza emessa nei confronti di don Rolando Leo, condannato per abusi sessuali su nove minorenni. Il giudice Amos Pagnamenta ha inflitto una pena di 18 mesi sospesi condizionalmente, una condanna di gran lunga inferiore alla richiesta dell’accusa (5 anni e mezzo) e persino la metà del limite massimo proposto dalla stessa difesa (massimo 36 mesi). A lasciare sgomenti sono le motivazioni della sentenza. Pagnamenta ha affermato che nella sua carriera, ha visto “fatti ben più gravi”, che le “vittime erano vestite” e che don Leo ha mostrato un “sincero pentimento”. Il giudice ha inoltre sottolineato che gli atti commessi sono da considerarsi come “i meno gravi” nella gerarchia delle molestie e delle violenze…

Ma cosa significa davvero “meno grave” quando si parla di abusi su minori e violenze sessuali? Come è possibile stabilire una gerarchia della violenza senza considerare il dolore, il trauma e la percezione di coloro che questa violenza l’hanno subita?

Ogni molestia, qualsiasi sia il suo grado di “gravità”, è una violazione della dignità, dell’integrità e della libertà. Ancora una volta invece, come avviene spesso anche nei casi di violenza contro le donne, si cerca di minimizzare quanto accaduto, di ribaltare la responsabilità sulle vittime che avrebbero “esagerato” o che non avrebbero compreso la vera entità dei fatti, dipingendo l’aggressore come “una brava persona” preda di un momento di follia e profondamente pentito di quello che ha fatto.

Questo modo di affrontare la questione è grave tanto quanto le molestie e gli atti di violenza. Si tratta di una forma di quella che viene chiamata la vittimizzazione secondaria che rende le vittime colpevoli o, perlomeno, in qualche misura complici di quanto accaduto. Un modo di agire che oltre a ferire chi ha denunciato e ha trovato il coraggio di parlare, ha come effetto anche quello di mettere a tacere altre eventuali vittime. Chi oserà ancora parlare e denunciare quando le parole e i vissuti di chi parla vengono minimizzati e banalizzati?

La giustizia dovrebbe essere un luogo in cui le vittime vengono ascoltate, protette e credute: questa sentenza rischia invece di alimentare la sfiducia nella giustizia e trasformarla in un luogo del silenzio imposto. La recente decisione del Consiglio di Stato, accogliendo l’iniziativa dell’Mps, di proporre l’introduzione nella legge sulla Chiesa dell’obbligo di denuncia è sicuramente un atto importante e positivo, ma questa sentenza rischia di pesare come un macigno sulla credibilità di questa riforma legislativa.

Si tratta di un grave segnale di una regressione politica e morale che, come hanno dimostrato le sue vicende interne, ha investito alcuni dei giudici del Tribunale penale cantonale. Un’ulteriore dimostrazione di come oramai l’influenza politica (e la Chiesa è ancora sicuramente un fattore politico importante in questo cantone) pesi nella realtà dell’amministrazione della giustizia in Ticino.

*già deputata MPS in Gran Consiglio - articolo pubblicato su La Regione

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