"La recente lettera firmata da 49 docenti di Lugano, che pretendono di giustificare l’intervento del plenum di Viganello a favore della “Palestina”, rappresenta un segnale grave"

di Adrian Weiss *
La recente lettera firmata da 49 docenti di Lugano, che pretendono di giustificare l’intervento del plenum di Viganello a favore della “Palestina”, rappresenta un segnale grave — non di libertà, ma di smarrimento del ruolo educativo.
Gli insegnanti non sono missionari ideologici. Sono servitori dello Stato, chiamati a trasmettere conoscenze, senso critico e rispetto per le istituzioni, non a trasformare la scuola in un’arena di propaganda politica.
Invocare “la pace e i diritti umani” per schierarsi in un conflitto sanguinoso, ignorando la complessità dei fatti e la brutalità del terrorismo che l’ha scatenato, non è un atto di coscienza: è un abuso di fiducia verso gli allievi e i cittadini.
La neutralità non è indifferenza: è responsabilità
I docenti affermano che “la neutralità non può essere confusa con l’indifferenza”. Giusto. Ma qui non si tratta di indifferenza: si tratta di professionalità.
La scuola pubblica appartiene a tutti, non a un gruppo di insegnanti che decide, in modo unilaterale, chi è la vittima e chi il colpevole in una guerra lontana.
L’educazione civica non consiste nel firmare lettere politiche, ma nell’insegnare a pensare criticamente, distinguendo tra fatti, opinioni e manipolazioni.
Un silenzio eloquente davanti ad altri crimini
Colpisce, però, un altro aspetto: questi stessi docenti non hanno mai preso posizione contro i massacri in Siria, contro la repressione in Iran, contro l’aggressione russa all’Ucraina, contro i campi di rieducazione in Cina o contro le carceri di dissidenti a Cuba. Non una parola per le donne iraniane impiccate per aver mostrato i capelli, né per i bambini ucraini deportati, né per gli uiguri perseguitati.
Eppure in quei casi non mancavano le violazioni dei diritti umani. Dov’era allora la loro “coscienza morale”?
Questa selettività rivela che non si tratta di un moto universale di empatia, ma di un riflesso politico mirato. E quando la morale diventa selettiva, cessa di essere morale e diventa ideologia.
Una scuola politicizzata è una scuola senza libertà
Chi pretende di “educare alla pace” scegliendo una parte del conflitto dimentica che la vera pace nasce dal rispetto reciproco, non dal giudizio morale unilaterale.
Usare la cattedra per veicolare un messaggio politico è un atto di potere, non di libertà. È una violazione del mandato pubblico, che impone equilibrio e rispetto della pluralità di pensieri, culture e sensibilità religiose presenti nelle classi.
La libertà di parola, tanto invocata, non è un diritto illimitato nel contesto istituzionale: un funzionario pubblico non può utilizzare la propria funzione per promuovere una tesi ideologica, tantomeno in nome di valori che vengono piegati a una narrazione selettiva.
Il vero coraggio è restare fedeli al mandato educativo
Chi oggi parla di Gaza ma tace sui massacri di Hamas, sui manuali scolastici che incitano all’odio, sulle vittime israeliane e sui rifugiati ebrei cacciati dai paesi arabi, non difende i diritti umani: li seleziona secondo convenienza politica. E questo, in una scuola, è inaccettabile.
L’educatore che piega la realtà a un pregiudizio politico smette di formare cittadini liberi: forma adepti. Chi insegna ha il dovere di proteggere gli studenti dalla manipolazione ideologica, non di introdurli in essa.
La scuola deve restare un luogo libero da propaganda, non libero per la propaganda. Solo così potrà educare davvero alla pace, alla conoscenza e alla dignità umana — non all’attivismo travestito da morale.
* presidente Associazione Svizzera-Israele