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Coronavirus
22.06.2020 - 11:500
Aggiornamento: 24.06.2020 - 09:47

Il Covid19 infiamma la comunità scientifica. Il Prof Adriano Aguzzi: "Diamoci una regolata: stop alle tifoserie da bar tra scienziati"

Il futuro della pandemia in Europa "spacca" il mondo degli specialisti tra chi teme una rovinosa ricaduta e chi sostiene che il peggio sia passato

LUGANO - Il dibattito scientifico, a livello nazionale e internazionale, sullo sviluppo della pandemia Covid19 in Europa, è più vivo che mai. Un dibattito utile e necessario all'interno del quale, però, non mancano purtroppo anche colpi bassi tra eminenti virologi, epidemiologi e clinici. Scienziati che, talvolta, sembrano più appassionati tifosi della propria tesi che socratici professionisti della ricerca.

Banalizzando un po’ - anzi parecchio - questi specialisti si dividono in due categorie: gli “allarmisti” che criticano i governi per le generose riaperture, per l’insufficienza delle misure di protezione e mettono in guardia su possibili, rovinose, ricadute; e gli “apeturisti” che sostengono invece che il peggio sia passato (“il virus è diventato più buono”) e che guardano con scetticismo all’ipotesi di una seconda ondata.   

I fronti si combattono a suon di studi, dati e apparizioni mediatiche. Gli “allarmisti” rilanciano la loro tesi ad ogni nuovo focolaio nel Mondo e alle impennate degli R0 dei vari Paesi. Gli “aperturisti” rispondono con l'evidenza degli ospedali vuoti da settimane e con studi sui tamponi che certificano una minor carica virale da parte dei nuovi infetti.

Alla radice del dibattito vi è una domanda ovvia: cosa diavolo sta succedendo? Se all’inizio della pandemia il comportamento del virus è stato coerente, e quindi prevedibile, nella seconda fase, quelle delle riaperture, non è invece stato più possibile anticiparne le mosse. Ciò ha creato un cortocircuito che ha spaccato il mondo scientifico e provocato un’enorme sorpresa nella maggior parte degli esperti, che si erano detti convinti che ad ogni allentamento del lockdown sarebbe corrisposto un aumento dei casi. Ciò non è per il momento avvenuto.

Le critiche di Egger al Consiglio Federale

Ieri il presidente della task force Covid della Confederazione Matthias Egger si è preso i titoli della stampa svizzera criticando il Consiglio Federale per le nuove riaperture giudicate “troppe rapide”.

La Svizzera - ha ammonito lo scienziato - non è ancora pronta per ritorno completo alla normalità, manca infatti ancora un sistema di monitoraggio funzionale per l’intero paese. Non è chiaro - ha aggiunto - se la rintracciabilità dei contatti funzioni davvero. Da un punto di vista scientifico, il deconfinamento comporta un alto rischio di vedere la situazione degenerare, se la diffusione del virus aumenta di nuovo.

Finora - ha concluso Egger - la lotta contro l’epidemia è andata bene, poiché il numero di casi di infezione è stato notevolmente ridotto. Il numero dei contagi è nuovamente aumentato nelle ultime due settimane. Ed è probabile che il tasso di riproduzione di Covid-19 sia di nuovo pari a 1 o anche superiore. C’è il rischio che il numero di casi aumenti drasticamente nelle prossime settimane.

Sulla linea di Egger, in Ticino, c’è sicuramente Christian Garzoni che nelle interviste e sui social continua a lanciare messaggi volti alla massima prudenza. Anche il medico cantonale Giorgio Merlani, nell’ultima conferenza stampa, ha chiesto alla popolazione di tenere alta l’allerta.

La ricerca del Prof Remuzzi: “I nuovi positivi non sono contagiosi”

Il dibattito è più acceso che mai anche oltre confine. "I nuovi casi di coronavirus non sono contagiosi”, ha dichiarato negli scorsi giorni un luminare come Giuseppe Remuzzi. Il direttore dell’Istituto Mario Negri ha fatto questa comunicazione sulla base di uno studio: “Abbiamo condotto - ha spiegato al Corsera il Professore - uno studio su 133 ricercatori del Mario Negri e 298 dipendenti della Brembo. In tutto, quaranta casi di tamponi positivi. Ma la positività di questi tamponi presentava una carica virale molto bassa, non contagiosa. Li chiamiamo contagi, ma sono persone positive al tampone.

"Sotto le centomila copie di Rna non c'è sostanziale rischio di contagio", ha aggiunto Remuzzi citando un lavoro appena pubblicato da Nature e confermato da diversi altri studi. "Quindi, con meno di diecimila copie di Rna virale, nessuno dei 'nostri' 40 positivi risulterebbe contagioso. Questo significa che il numero dei nuovi casi può riguardare persone che hanno nel tampone così poco Rna da non riuscire neppure a infettare le cellule. A contatto con l'Rna dei veri positivi, quelli di marzo e inizio aprile, le cellule invece morivano in poche ore”.

Il nuovo studio di Remuzzi si sovrappone alla ricerca del Professor Massimo Clementi del San Raffaele di Milano, di cui vi avevamo riferito nelle scorse settimane (leggi articolo correlato) e che aveva ispirato la celebre frase del Professor Zangrillo: “il Covid19 è clinicamente morto”.


Zangrillo: “Un paziente positivo non è un malato”

A proposito di Zangrillo. Le ultime affermazioni del medico proseguono sulla linea dell’ottimismo. Pur ribadendo l’assoluta necessità di mantenere precauzioni come la distanza sociale e le norme igieniche, il primario ha evidenziato in un’intervista a QN che “l’ultima paziente entrato nella terapia intensiva del San Raffaele risale al 18 aprile. E l’ultimo positivo al virus ricoverato in reparto ordinario, con una sintomatologia semplice, è di dieci giorni fa. I miei dati sono questi. E se li confronto con quelli dei colleghi di altri ospedali, il risultato è identico”".

"Il Covid 19 - ha precisato Zangrillo - c’è ancora, non è mutato, ma l’interazione virus-ospite non dà più la malattia. I tamponi più recenti hanno mostrato una carica virale di gran lunga attenuata rispetto ai prelievi di uno-due mesi fa. È ora di ribadire una cosa: un paziente positivo non è malato. E il numero giornaliero dei contagi non ingrossa le fila dei malati. Punto”. Che è successo allora? “I virologi del San Raffaele diretti da Massimo Clementi - ha risposto il medico - hanno accertato che si tratta di un maledetto beta coronavirus, stessa famiglia di Sars e Mers. Però è diventato meno bellicoso. I fattori ambientali giocano inoltre a nostro favore: raggi ultravioletti e temperature alte lo indeboliscono. E non è affatto detto che ci sarà una seconda ondata”.

Il Prof Aguzzi: “Stop alla tifoseria da bar tra scienziati”

Tornando in Svizzera, parole di grande buonsenso sul tema sono state espresse ieri dal Professor Adriano Aguzzi. Il direttore dell’istituto di Neuopatologie dell'Università di Zurigo - che ad inizio pandemia aveva chiesto a gran voce il lockdown e non aveva lesinato critiche al vetriolo all’Ufficio federale della sanità e al Consiglio Federale - ha espresso su Facebook il suo pensiero:  Assisto con sgomento ad una progressiva tifoseria da bar che contrappone virofobi e virofili, e purtroppo coinvolge anche medici e scienziati rispettabili. Gli uni sembrano rallegrarsi ad ogni impennata del numero R ("ve l'avevo detto, ve la siete voluta voi"), gli altri parlano di "giornalisti terroristi che seminano panico”. Io invece esorto i migliori scienziati, invece di inveire e recriminare, a pensare: "L'incidenza sta scendendo molto di più di quanto l'epidemiologia avesse previsto. Benissimo! Siamo molto contenti, ringraziamo la sorte, però non capiamo. Ci devono essere delle ragioni per questo sviluppo. Chiaramente non si tratta di attenuazione genetica, le sequenze parlano chiaro. Forse è un virus stagionale - ma cosa vuol dire esattamente questo? Che si squaglia al sole? Certamente no, visto che si diffonde fortemente in paesi tropicali/equatoriali. Sappiamo che umidità <40% e >70% ne favoriscono la diffusione, ma quanto incide questo sulla transmissione? Ad ogni modo, è un fenomeno interessantissimo che ci incuriosisce, e che vogliamo studiare. Perchè capirlo potrebbe essere la chiave per prolungare la attuale eclissi del virus e forse ci aiuterà a debellarlo mentre attendiamo vaccini e composti antivirali efficaci”.

“Credo che sia opportuno - ha aggiunto Aguzzi - studiare a fondo la questione dell'umidità. Negli interni è forse il fattore che cambia più radicalmente nella stagione estiva alle nostre latitudini. Nel mio ufficio si è passati dal 30% di dicembre al 58% odierno. E le infezioni avvengono quasi tutte negli interni. Ma questa è un'ipotesi come tante altre, e va verificata empiricamente, sennò si torna alla tifoseria da bar.

“Credo - ha concluso il Prof - che dobbiamo tutti darci una regolata e ammettere che ancora sappiamo ben poco”.

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