Paolo Rossi affronta alcune domande cruciali: come garantire la sicurezza degli approvvigionamenti, come sostenere la transizione verso un’economia a basse emissioni e come farlo senza scaricare costi eccessivi su cittadini e imprese
di Paolo Rossi - articolo apparso su ilfederalista.ch
È un’epoca, la nostra, nella quale il confronto pubblico, e in particolare quello politico, sembra essere sempre più ostaggio dell’ideologia. Non conta tanto misurarsi con i fatti, analizzare dati concreti o cercare soluzioni pragmatiche: ciò che prevale è la costruzione di nemici simbolici, la ricerca di pericoli generali, la creazione di un “noi” contrapposto a un “loro”. Questo approccio, insistente e a volte brutale nelle dispute politiche quotidiane, purtroppo si insinua anche in campi che dovrebbero essere governati da criteri tecnici ed economici, come quello dell’energia.
L’ideologia, quando si traveste da principio tecnico, può risultare ancora più subdola: non si manifesta con slogan o proclami, ma con convinzioni radicate che appaiono razionali eppure non lo sono.
L’illusione dell’autarchia energetica
Un esempio tipico riguarda il tema dell’autarchia energetica nazionale. L’idea è semplice: produrre internamente tutta l’energia necessaria a coprire i consumi del Paese. Ma la realtà dice altro. L’energia non è mai stata un bene autarchico. È, al contrario, un bene intrinsecamente condiviso e sovranazionale.
La Svizzera rappresenta un caso emblematico. Già dagli anni ’50 il bilancio energetico nazionale era legato agli scambi con l’estero e, a partire dagli anni ’70, il Paese è diventato un importatore netto di energia. Pensare oggi che si possa produrre “in casa” tutto ciò che consumiamo appare semplicemente un’illusione. Non è un caso che, sul fronte alimentare – settore cruciale quanto quello energetico – la bilancia import/export svizzera sia negativa. Eppure, nessuno invoca seriamente un ritorno a un piano Wahlen, come quello attuato in piena Seconda Guerra Mondiale, con coltivazioni forzate e riduzione drastica delle importazioni.
La questione delle emissioni
Un altro approccio ideologico riguarda il profilo delle emissioni. La Svizzera può vantare una produzione quasi interamente priva di CO₂, grazie all’idroelettrico e ad altre fonti rinnovabili. Da questa constatazione nasce un ragionamento: costruire centrali a gas “sporcherebbe” il nostro profilo ambientale. Ma si tace un aspetto fondamentale: i nostri consumi reali non sono mai perfettamente “puliti”, perché dipendono dagli scambi con l’estero. Se si calcola il bilancio netto delle emissioni, si scopre che i consumatori svizzeri, in virtù di queste importazioni, presentano valori tutt’altro che trascurabili. I certificati di origine della produzione rinnovabile, infatti, attestano un’impronta media di 55 grammi di CO₂ per kWh consumato.
Nascondere questo dato per mantenere un’immagine illibata della produzione nazionale non è solo una forzatura ideologica: è un ostacolo a decisioni pragmatiche sugli investimenti e sulle politiche di lungo periodo.
Pensare su scala europea
La transizione energetica, più di altri ambiti, richiede una visione continentale. Le rinnovabili sono, per loro natura, risorse distribuite in modo molto regionale. Investire in biomassa in Svizzera non ha lo stesso senso che farlo in Paesi a forte vocazione agricola; così come puntare sull’eolico nelle vallate alpine, dove i venti sono irregolari, non è efficiente quanto sfruttare il Mare del Nord o il Baltico.
La storia ci offre un esempio di razionalità che oggi rischiamo di dimenticare. La Svizzera, con la costruzione dei grandi bacini idroelettrici alpini, ha reso disponibili enormi quantità di energia ben oltre il fabbisogno locale, integrandosi pienamente nel mix europeo. Con le centrali di pompaggio, inoltre, ha contribuito a ottimizzare l’uso dell’energia nucleare francese, immagazzinando l’eccesso prodotto di notte o nei weekend. Lo stesso approccio potrebbe essere applicato oggi al solare, che presenta simili problemi di accumulo e distribuzione.
Un dibattito ostaggio degli estremismi
Il vero nodo è che il dibattito, non solo sull’energia ma su molti aspetti della vita pubblica, è ormai prigioniero di estremismi. Ogni appello alla razionalità rischia di cadere nel vuoto, schiacciato tra visioni opposte e poco disposte a confrontarsi con la realtà.
Eppure, mai come oggi, la complessità delle sfide energetiche richiederebbe pragmatismo, cooperazione e visione di lungo periodo. Restare ancorati a posizioni ideologiche, che siano il mito dell’autosufficienza o quello della purezza ambientale incontaminata, non aiuta a risolvere i problemi. Li amplifica.
La lezione è semplice: se vogliamo una politica energetica sostenibile, dobbiamo avere il coraggio di guardare oltre i confini nazionali, riconoscere le interdipendenze e accettare che la soluzione non è mai “solo nostra”, ma sempre frutto di un sistema più ampio.