"Finalmente li abbiamo visti riapparire nello scaffale con la loro confezione rossa a marchio Bistefani. Ma perché erano spariti?"

di Amalia Mirante*
Che succede ai Krumiri? Finalmente li abbiamo visti riapparire nello scaffale con la loro confezione rossa a marchio Bistefani. Ma perché erano spariti?
Bistefani era una azienda con una storia chiara: un marchio locale, riconoscibile, con un prodotto che le persone associano a ricordi concreti (io, per esempio, adoro mangiucchiare i Krumiri d’estate al mare in veranda bevendo un Baileys ghiacciato con mia sorella e la mia figlioccia). Quando il gruppo Bauli acquisisce Bistefani nel 2013 e decide di integrare produzione, marchio e strategia, entra in gioco una dinamica classica di economia: sfruttare le sinergie, ridurre costi fissi, usare marchi multipli per aumentare la quota di mercato. Ma accade qualcosa che spesso le aziende ignorano: il valore reale del marchio non è solo nei bilanci, ma nella mente e nel cuore dei consumatori. Cambiare qualcosa di riconosciuto e riconoscibile come la confezione, il logo, il gusto significa toccare l’essenza stessa del prodotto (agli economisti piace parlare difficile e quindi ecco qui il termine di brand equity). Se lo fai senza una narrazione forte, rischi di perdere tanto.
Nel caso dei Krumiri, la produzione viene spostata, la confezione cambia, il marchio Bistefani viene mescolato con Motta (altro marchio del gruppo). Tutto economicamente vantaggioso, se non fosse che per il consumatore “qualcosa che cambia e non è più lo stesso”. Crollo delle vendite.
Un altro esempio lo troviamo con le caramelle Sugus. Il prodotto funzionava da decenni (quasi 100 anni…) con un’identità semplice e forte. Cambiare ricetta o imballaggio significa rompere quella continuità che i consumatori danno per scontata. Il concetto tecnico qui è “path dependence” (il peso della storia): ciò che conta non è solo il prodotto oggi, ma che cosa ha rappresentato ieri e come è arrivato a essere quello che è. Modificare anche piccoli elementi rischia di produrre disaffezione. Ed è quello che è capitato.
Poi c’è Coca-Cola. Negli anni ’80 la sfida di Pepsi spinge Coca-Cola ad azzardare la “New Coke”, una nuova formula per combattere la concorrenza che si è rilevata fallimentare. Successivamente, arriva la Light che non riesce pienamente a raccogliere l’eredità del marchio originale perché si posiziona come “bevanda da dieta”. Ma alla fine arriva la risposta strategica giusta: Coca‑Cola Zero. Si crea un nuovo prodotto, con identità nuova ;“Coca-Cola senza zucchero”, gusto vicino all’originale, imballaggio forte che evita di trascinare con sé tutti i limiti della Light. Funziona.
Riassumendo: quando un’azienda acquisisce un marchio storico e decide di cambiare qualcosa, dovrebbe valutare tre elementi chiave: la coerenza della , ricetta, marchio, immagine nel tempo; la percezione del consumatore; la segmentazione e posizionamento nel mercato. Ignorarli significa rischiare la perdita di fedeltà, anche se tutti i conti industriali quadrano.
Per chi dirige, per chi decide strategie, la lezione è che non è sufficiente integrare, razionalizzare, ridurre costi. Bisogna rispettare quel legame emotivo che il consumatore ha costruito con il marchio. È lì che risiede il vero valore. Se lo vivi come un elemento “di secondo piano”, allora anche la strategia più raffinata rischia di diventare un grande fallimento.
*economista