Il film parla di una donna che vuole aiutare l'Africa: la protagonista è una reporter freelance realmente esistita e uccisa nel maggio 2014 in Centrafrica. Insopportabile la scena in cui fotografa il colpo letale di una lapidazione
di Claudio Mésoniat
Il film “Camille” ci parla di una donna che vuole aiutare l’Africa. Come un medico o un’infermiera che vanno a lavorare in un dispensario, come un ingegnere che va a scavare pozzi nella savana, come un giornalista che vuole documentare situazioni di miseria o di guerra atroci, e potremmo aggiungere all’elenco anche un missionario o una suora mossi dall’intento di portare il Vangelo a chi non lo conosce: tutti sanno di rischiare, spesso molto, a volte la stessa vita.
Ebbene, è difficile districare in loro l’istinto umanitario, il senso di giustizia (fors'anche acceso dal rimorso per i grandi disastri causati dai nostri Paesi europei in quel continente), il fuoco dell’ideale che spinge a comunicare a ogni essere umano che lui, proprio lui, vale più di tutto l’universo – è difficile tener separata l’altezza di queste motivazioni dalla meschinità del volersi sentire eroe, dalla ricerca della propria gloria professionale, dalla boria di poter alzare davanti ai propri conterranei il trofeo del proprio coraggio (oh, con modestia naturalmente, e umiltà).
Non stiamo affatto divagando, è proprio questo il pensiero con cui siamo usciti dalla proiezione di “Camille”, il film francese di Boris Lojkine portato ieri in Piazza Grande da Lilli Hinstin. E gliene siamo grati.
Camille Lepage, fotoreporter freelance uccisa nel maggio del 2014 in Centrafrica, dove seguiva delle rischiosissime operazioni di guerra direttamente sulle moto di un gruppo di guerriglieri Seleka, ci viene descritta nel film come una donna di purezza ideale adamantina. Scattare foto, mostrare dalle pagine dei grandi giornali francesi l’orrore di quel carnaio, convincere il governo francese a intervenire, come in effetti accadrà (senza peraltro grandi risultati).
Camille ci è mostrata come una ragazza animata dal fuoco sacro della professione, e da un dichiarato amore per l’Africa e per gli africani. Non sopporta la violenza ma per scattare le foto che “sveglieranno tutti gli animi” pensa di doversi immergere temerariamente, al limite dell’incoscienza, nei focolai della più folle, sadica violenza omicida.
Come nella scena – davvero insopportabile - di un poveretto lapidato solo perché della tribù “sbagliata” (musulmana). E Camille, sia pure sconvolta e in lacrime, si butta a fotografare il colpo letale, un metro sopra il volto della vittima.
“Fermali”, gridavo dentro di me e mi sono chiesto cosa avrei fatto al posto suo. Cercare di fermare quella folla inferocita? Avrebbe significato certamente farsi ammazzare insieme al poveretto. Fotografare, dunque? Quello no, di certo. Camille, comunque, si era spinta là dove io non mi sarei mai spinto. Sicuro?
Chiediamo scusa per aver perso il nostro aplomb ed essere passati alla prima persona. E apriamo una parentesi. È che di Africa il vostro ippopotamo se ne intende un po’. Anche di guerre africane.
Camille Lepage aveva la sua base africana nel sud del Sudan, a Juba. Da lì aveva mandato foto terribili pubblicate sui giornali di tutto il mondo. Nelle prime sequenze del film si sfoga raccontando che i bambini sudanesi crescono nel terrore degli “Antonov”, gli aerei con i quali le criminali autorità di Khartoum bombardavano le inermi popolazioni del sud. Il vostro ippopotamo ha subito drizzato le orecchie perché anni fa era stato laggiù, quando ancora la secessione del Sud non era compiuta ma gli “Antonov” di Khartoum erano già intensamente al lavoro contro i toposa e le altre tribù indigene che avevano la sola colpa di non essere musulmane. Le voci dei bambini toposa che citavano ad ogni piè sospinto quei malefici uccellacci, gli “Antonov”, che scaricavano bombe micidiali sulle loro teste (e che loro sapevano distinguere dai velivoli della FAO che invece portavano il cibo durante le frequenti carestie) sono rimaste bene impresse nel documentario girato laggiù per la RSI, e nelle orecchie di chi scrive.
Torniamo al film per notare che molte sequenze, frutto ovviamente di ricostruzione e di recitazione - con la bravissima Nina Meurisse quale protagonista e attori africani locali- sono di un realismo crudo ma in nessun caso inutile o compiaciuto.
L’impianto narrativo è piuttosto esile, le motivazioni di Camille in realtà non sono troppo indagate e documentate, forse semplicemente perché le testimonianze sulla vita e gli ideali della ragazza, morta giovanissima, non lo consentivano. In alcune brevi sequenze, dove Camille si intrattiene a Bangui con dei colleghi più anziani, si inserisce qualche interrogativo sull’etica della fotografia.
Come ci si poteva attendere, le riprese si alternano di frequente alle fotografie originali di Camille, con gli opportuni accorgimenti per rendere sovrapponibili le inquadrature.