Le verifiche politiche sul caso Hospita sono necessarie, ma la Commissione parlamentare d'inchiesta è lo strumento sbagliato

di Andrea Leoni
Sgombriamo il campo da ogni equivoco: vi sono azioni e comportamenti tenuti dai vertici della Lega sul caso Hospita che necessitano di approfondimenti. Urgono risposte convincenti a domande istituzionalmente gravose. Per ottenerle, la Sottocommissione speciale del Gran Consiglio che ha analizzato il dossier, propone una Commissione parlamentare d’inchiesta (CPI) “rafforzata”. Un gremio di deputati, uno per partito rappresentato in Parlamento, coadiuvati, o forse guidati, da esperti di provata competenza.
La CPI è lo strumento più potente che il Parlamento possa mettere in campo. Dispone di poteri inquirenti notevoli, dei quali vengono improvvisamente investiti i deputati di milizia che ne entrano a far parte. Istituzionalmente è una sorta di bomba ibrida perché somma, almeno in parte, le prerogative proprie del potere politico con quelle del potere giudiziario.
La CPI, in particolare, andrebbe utilizzata esclusivamente nel caso vi siano indizi di gravi storture, o peggio, nel funzionamento della macchina dello Stato. Ciò ha sempre portato al naturale coinvolgimento nelle indagini sia della parte politica sia del funzionariato. Storicamente queste Commissioni concludono i propri lavori proponendo modifiche legislative o fornendo raccomandazioni. Di grandi scoperte non se ne sono mai fatte.
Il caso Hospita, già da questo profilo, presenta una sua specificità che pone i primi dubbi sul fatto che la CPI sia lo strumento adeguato alle necessarie verifiche. La macchina statale - per fortuna! - è del tutto marginale rispetto alla vicenda. Non ci sono funzionari coinvolti e neppure risultano processi legislativi strapazzati. Il tema oggetto d’inchiesta è uno solo: la Lega e i suoi dirigenti. Potenzialmente sotto la lente dell’indagine potrebbero finire i due Consiglieri di Stato, Norman Gobbi e Claudio Zali, il coordinatore Daniele Piccaluga, i suoi due vice Alessandro Mazzoleni e Gianmaria Frapolli, l’ex deputato e membro del CdA di BancaStato Enea Petrini, e chissà chi altro della truppa di via Monte Boglia. Il caso istituzionale è certamente dato dalla carica ricoperta dal alcuni dei protagonisti: ministri e deputati ancora in carica o in carica al momento dei fatti. Su questo non ci sono dubbi.
In queste ore concitate i promotori della CPI si richiamano a un principio sacrosanto, quello dell’opportunità politica. Fatti e azioni di chi ricopre una carica pubblica possono essere del tutto inopportuni, benché non costituiscano reato. Vero, verissimo. Vi è però da chiedersi con altrettanta rettitudine istituzionale, se sia opportuno, anche da un profilo squisitamente democratico, che un Parlamento, cioè tutte le altre forze politiche, metta sotto processo un altro partito, la Lega. Per di più a ridosso delle elezioni.
Il principio dell’opportunità politica dovrebbe suggerire ai promotori della CPI, e a tutti coloro che desiderano fare chiarezza con la massima onestà intellettuale, di scacciare con forza ogni sospetto di pregiudizio, partigianeria o d’interesse elettorale. Come? Facendo fare ai partiti un passo indietro. Le alternative per raggiungere lo stesso risultato non mancano. Sarebbe sufficiente incaricare dell’indagine delle personalità - tre o quattro - al fuori dell’arena politica, di provata competenza e indipendenza, fornendogli un preciso perimetro d’inchiesta e gli stessi strumenti inquirenti della CPI. In passato lo si è già fatto con successo.
Spoliticizzare questa importante verifica che il Parlamento si appresta ad avviare, è l’unico modo per vestire di credibilità l’esercizio. Se si mira alla verità, quel che conta è l’obbiettivo, non lo strumento per raggiungerlo.